domenica 18 gennaio 2015

Recensione a TOLSTOJ, I racconti di Sebastopoli, Ed. Garzanti.



“Eroe del racconto, eroe che io amo con tutta l’anima e che ho cercato di riprodurre in tutta la sua bellezza, e che sempre è stato, è e sarà meraviglioso, eroe del mio racconto è la verità”.

La guerra di Crimea è uno di quei conflitti minori dell’Ottocento di cui la maggior parte di noi non ricorda con precisione le origini storiche, le forze in campo o le conseguenze; ci resta soltanto un vago ricordo legato alla nostra storia risorgimentale
Abbiamo tutti sentito parlare della guerra di Crimea, quantomeno ne abbiamo un vago ricordo, se non altro perché quel conflitto ha rappresentato uno snodo cruciale del nostro Risorgimento e, di conseguenza, un punto fisso dei programmi scolastici di insegnamento della storia da una generazione all’altra, fino ai giorni nostri. Ricordiamo magari che fu una tappa del nostro processo di unificazione nazionale, la associamo alla figura di Cavour e al fatto che i morti italiani in quelle terre lontane furono la moneta con cui la ragion di stato sabauda pagò il sostegno di alcune grandi potenze (Francia e Inghilterra) nella nostra lotta contro l’Impero austro-ungarico.
Ma a noi italiani è mancato un narratore capace di superare l’immediatezza di quegli eventi  e di registrarne il contenuto universale ed eterno. Tra le fila dello schieramento avversario era invece presente un giovane ufficiale, tale Lev Nikolaevič Tolstoj, che, per nostra fortuna, non andò incontro al destino di tanti altri suoi coetanei sui bastioni di Sebastopoli.
Il suo sguardo partecipe registrò, da un lato, l’ammirazione per il popolo russo - la cui forza nasce da due caratteristiche essenziali: “la semplicità e l’ostinazione” - e, dall’altro, l’insofferenza per il mondo dell’aristocrazia russa, composta da individui il cui unico movente pare essere la vanità (“Vanità, vanità, nient’altro che vanità, perfino sull’orlo della fossa e tra persone pronte ad affrontare la morte per un nobile ideale”), il desiderio di innalzarsi su una scala sociale che pare avere sempre un gradino di troppo, modulando disprezzo e adulazione, affettazione e genuflessione a seconda della persona che si ha di fronte o accanto a sè. Uomini che paiono usciti dall’universo barocco della corte del Re Sole, incapaci di vedere ciò che realmente accade intorno a loro, incatenati ad un mondo di apparenze, tanto più vogliosi di esibire il loro potere e la loro ricchezza quanto più immeritatamente quelli sono stati conseguiti; coscienze asfittiche impegnate a praticare un ottuso machiavellismo per avvicinarsi di un passo alla vetta della società, e totalmente indifferenti al mondo che sta ai loro piedi: “«[…] ci mancherebbe, in una tale situazione, vivere anche nel fango e senza comodità». «E come fanno allora i nostri ufficiali di fanteria», disse Kalugin, «che vivono con i soldati nei bastioni, nel rifugio, e mangiano il rancio dei soldati, come se la passano loro?» «Ecco, questo proprio non lo capisco e, devo ammetterlo, non riesco a credere», disse Gal’cin, «che degli uomini con indosso biancheria sporca, che vivono in mezzo ai pidocchi e senza lavarsi le mani, possano essere valorosi. […]». Ufficiali che pure partecipano agli scontri, magari mostrando anche coraggio, ma che sempre affrontano la battaglia come fosse un giro di roulette, l’avventura di un momento, ritraendosene inorriditi e disgustati appena il vero volto della guerra comincia a mostrarsi loro: “Ma Kalugin non capì che egli, in tutto, aveva trascorso appena cinquanta ore sui bastioni, mentre il capitano aveva vissuto là sei mesi. Inoltre stimolava Kalugin la vanità, il desiderio di brillare, la speranza di decorazioni, di procurarsi buona fama e il piacere del rischio; il capitano aveva già passato tutto questo”. “Al contrario, Kalugin e il colonnello sarebbero stati disposti ad assistere ogni giorno a un fatto del genere, solo per ricevere ogni volta la sciabola d’oro e il grado di general maggiore”.
Tolstoj mette così in luce la frattura che attraversa la società russa del suo tempo, ciò che la condurrà alla sconfitta e al crollo definitivo: “La disciplina e le sue regole, la subordinazione, è gradita, come tutti i rapporti fissati dalle leggi, solamente quando è fondata, oltre che sulla coscienza comune della sua necessità, sulla virtù, riconosciuta da parte dell’inferiore, di una superiorità basata sull’esperienza, sul valor militare o addirittura semplicemente sull’integrità morale; ma quando la disciplina è basata, come spesso accade qui da noi, sulla casualità e sul denaro, essa si tramuta sempre in arroganza da una parte, in invidia nascosta e in rabbia dall’altra e, invece dell’influsso benefico prodotto dall’unione delle masse in un tutt’uno, ottiene l’effetto contrario. L’uomo che non senta dentro di sé la forza di ispirare rispetto con la virtù interiore, istintivamente teme di assomigliare ai subordinati e cerca, dandosi importanza con atteggiamenti esteriori, di allontanare da sé le critiche. I subordinati, vedendo solo questo lato esteriore, che li offende, ritengono, in gran parte a torto, che al di là di esso non ci sia più niente di buono”. Parole, queste, che parlano di un tempo lontano e di tutt'altra società, ma che mostrano qualcosa che i nostri occhi sanno di avere visto nella nostra Italia del XXI secolo. L'unica differenza - e, forse, l'unica cosa che può salvarci - è la democrazia, che là non aveva voce, mentre qui ancora sopravvive...

lunedì 22 settembre 2014

recensione al libro di David Grann, Z. La città perduta, Ed. Corbaccio.




recensione al libro di David Grann, Z. La città perduta, Ed. Corbaccio.

Per chi ama l’Amazzonia come me è stato un libro di un certo interesse,non solo perché mi ha fatto conoscere un personaggio di cui prima ignoravo l’esistenza, Percy Harrison Fawcett, “l’ultimo dei grandi esploratori vittoriani ad avventurarsi per lande inesplorate confidando in poco più di un machete, una bussola e una determinazione sovrumana”, ma anche perché – e questa è la parte più significativa del libro – rivela che gli indios amazzonici non sono affatto popoli senza storia.
Una certa vulgata anche scientifica ha diffuso un’immagine cristallizzata dell’Amazzonia quale luogo privo di storia, un “inferno verde” o un “paradiso illusorio” in cui la sovrabbondanza di vita animale e vegetale unita ad un clima ostile non consentirebbero l’instaurarsi di comunità più articolate delle tribù amazzoniche odierne, né un’evoluzione di queste ultime verso forme sociali più complesse. 
Percy Harrison Fawcett, il protagonista di questa lunga inchiesta giornalistica, la pensava diversamente. A seguito delle sue spedizioni si era convinto dell’esistenza, nel cuore dell’Amazzonia, di una vera e propria città, che lui battezzò “Z”, e si mise alla caccia dei sui resti attratto non tanto dal mito dell’Eldorado e delle sue favolose ricchezze, quanto dal desiderio autentico di scrivere «un nuovo capitolo della storia dell’uomo». Perché Fawcett non era affatto un avventuriero pazzo, come una lettura superficiale potrebbe far credere: godeva infatti di una solida formazione scientifica, di un senso della disciplina e di un approccio metodico ad ogni spedizione frutto della sua formazione militare; qualità che, unite  ad una resistenza fisica “tale cha alcuni dei suoi colleghi arrivarono addirittura ad affermare che fosse immune alla morte” e alla sua capacità di instaurare con le tribù amazzoniche un dialogo nutrito da un crescente rispetto per loro[1], decisamente anomalo per l’epoca[2], lo rendevano la perfetta incarnazione dell’esploratore britannico “come vorremmo che fosse”, alimentando così il mito del buon europeo portatore di vera civiltà, non meno affascinante del mito speculare a questo, ovvero il mito del buon selvaggio[3].
Ad alimentare il mito personale del colonnello Fawcett fu poi la sua misteriosa scomparsa nel fitto della foresta amazzonica. Il vuoto di informazioni attendibili – peraltro in parte dovuto allo stesso Fawcett, che, ad un certo punto, tentò di depistare i suoi colleghi esploratori e potenziali concorrenti -  ha alimentato una miriade di ipotesi fantasiose, ottimo materiale per i romanzieri, e numerose spedizioni di ricerca; ma ciò che rende ancora attuale la figura di questo grande esploratore è soprattutto il fatto che le scoperte archeologiche degli ultimi anni rivelano quanto fosse vicino alla verità[4]. C’erano veramente città immerse nella foresta ed “erano proprio il tipo di strade e villaggi di cui avevano parlato i conquistadores spagnoli quando avevano visitato l’Amazzonia, quelli ai quali Fawcett aveva così ardentemente creduto e che gli scienziati del XX secolo avevano etichettato come miti”. Fawcett aveva gli occhi per vedere il passato dei popoli dell’Amazzonia, ma non aveva gli strumenti per sapere cosa cercare, non rovine di palazzi e monumenti in pietra, ma tracce nel terreno di antichi insediamenti.
D’altra parte, le convinzioni di Fawcett erano maturate nel corso di vent’anni di esplorazioni in Amazzonia, durante i quali aveva raccolto molti indizi a conferma della sua teoria:
-          Innanzitutto, sin dal 1914 “intuì che le tribù più ricche e popolose si trovavano in regioni lontane dai fiumi principali, ossia lontane da dove molti europei e cacciatori di schiavi erano arrivati”. Erano tribù che, suscitando il suo stupore, “davano prova di una cultura sofisticata” e, spesso, “raccontavano leggende circa i loro antenati che vivevano in insediamenti anche più imponenti e belli”.
-          Su rocce nella giungla trovò “qualcosa che assomigliava ad antiche pitture e incisioni di figure umane e animali[5]” e notò che su ogni alturas, ossia collinette che si innalzano sulla piana della foresta, si potevano facilmente trovare nel terreno dei manufatti, ad esempio frammenti di ceramica, e, inoltre, “queste alturas erano collegate da una sorta di tracciati allineati geometricamente. Sembravano, e ci avrebbe quasi giurato, «sentieri» e «strade sopraelevate»”.
-          Le cronache dei conquistadores “riferivano concordi di popolazioni indigene numerose e dense”, con vere e proprie città costruite all’interno della foresta. In particolare, Fawcett era riuscito a scovare un manoscritto, ora conservato presso la Biblioteca Nazionale di Rio de Janeiro, intitolato «Relazione storica di una grande, antichissima città nascosta […] scoperta nell’anno 1753», che “considerava l’elemento determinante a riprova della sua teoria della civiltà amazzonica perduta”.
Fawcett pensava che quest’ultima città si trovasse verso lo stato di Bahia, mentre Z, la città “monumentale che cercava, e magari anche qualche traccia della sua popolazione originaria, si celasse nelle foreste del fiume Xingu, nel Mato Grosso brasiliano”. Più precisamente, “era arrivato alla conclusione che nella parte meridionale del bacino amazzonico, tra gli affluenti Tapajós e Xingu, si trovassero «le più significative rovine di una civiltà antica»”.
Fawcett era comunque un uomo del suo tempo e “non riuscì mai ad affrancarsi da quel che lo storico Dane Kennedy definì «labirinto mentale della razza»” né “riuscì mai a spiccare il salto finale degno di un antropologo moderno e accettare che civiltà complesse potessero svilupparsi in maniera indipendente le une dalle altre”. D’altra parte, “ancora all’inizio del XX secolo, l’allora popolare scuola diffusionista degli antropologi continuava a sostenere che, semmai fosse esistita un’antica civiltà sofisticata in Sud America, le sue origini sarebbero state occidentali o vicino-orientali, da ricercare nelle tribù perdute di Israele, per esempio, o tra i marinai fenici”.

Interessante è anche un altro aspetto di questo libro, ossia la percezione dell’ecosistema amazzonico da parte di noi bianchi. A questo proposito, sembra che l’impatto iniziale di ogni occidentale posto di fronte all’immensità amazzonica sia sempre pressoché identico. Una sensazione debilitante di costante minaccia per la propria vita, immersi nell’atmosfera ovattata dell’appiccicaticcio clima equatoriale, una cortina di umidità al cui interno gli incubi peggiori paiono materializzarsi, spingendo chi vi si avventura alla follia o ad una morte atroce.
 Facendo riferimento alla sua prima esplorazione dell’Amazzonia, tra il 1906 e il 1907, quando si inoltrò nella foresta tra Bolivia e Brasile, Fawcett scrive del suo viaggio lungo un «fiume così tranquillo, ma così minaccioso, con quella corrente tanto debole, e quelle acque profonde che sembravano condurci verso ogni sorta di sciagure». E ancora: «I demoni dei fiumi amazzonici pervadevano ogni cosa; erano là, nel cielo basso, nella pioggia a catinelle e nelle cupe pareti della selva». Insomma, in Amazzonia “il regno animale «si contrappone all’uomo come in nessun’altra parte del mondo»”: questa almeno è l’impressione iniziale, motivata già dal semplice fatto che la sovrabbondanza di flora e fauna non corrisponde affatto ad una immediata disponibilità di cibo commestibile e non è facile abituarsi “a un senso di fame così intenso, costante, oppressivo, che rode dentro, mina la mente e il fisico”, mentre i suoni della selva non si interrompono mai e sembrano martellarti fin nel più profondo della coscienza.
Fawcett, grazie alla sua straordinaria apertura mentale, ebbe ben presto modo di comprendere che questa visione dell’Amazzonia non era reale, bensì frutto della nostra ignoranza e della nostra supponenza di occidentali maldisposti ad accettare di imparare dagli indios come si vive nella foresta amazzonica. Lui, al contrario, desiderò fin dall’inizio stabilire un contatto con gli indios e appena ne ebbe l’occasione, mettendo seriamente a rischio la propria vita, avvicinò una tribù di Guarayos resa ostile dalla precedenti esperienze con gli occidentali e seppe farseli amici. Ebbe così modo di scoprire che la loro vita era perfettamente integrata con la foresta, di cui possedevano una conoscenza senza pari: ogni albero, fiore o animale ospitati nel tratto di foresta che costituiva il loro territorio non aveva segreti per loro e sapevano con assoluta tranquillità trovarne un esemplare in caso di necessità, e da ciò che li circondava, da quell’inferno verde che falcidiava e torturava gli esploratori occidentali ricavavano senza eccessiva fatica tutto ciò che occorreva loro – cibo, farmaci portentosi, veleni per la caccia e la guerra, materiale per le armi e gli strumenti della vita quotidiana, fibre per i capi di abbigliamento e pitture per gli elementi decorativi.


[1] Il suo apprezzamento per la civiltà occidentale si fece ancor più critico a seguito della sua partecipazione alla Prima guerra mondiale, tanto che, a conclusione di una sua lettera pubblicata in un giornale inglese, scriveva: «Dopo aver visto certe cose, Civiltà è una parola senza senso. Questa guerra è stata un’insana esplosione dei più bassi istinti umani».
E fu a seguito di quegli orrori che Fawcett “cercò sollievo nello spiritismo e nei riti occulti”, avvicinandosi alle teorie di Madame Blavatsky. Tendenza che la crescente avversità degli ambienti accademici alle sue teorie accrebbe ancor più, influenzando anche la sua visione di Z.
[2] Fawcett criticò aspramente gli atti di violenza gratuita compiuti spesso dagli esploratori del bacino amazzonico e si comportò sempre, ad eccezione di un solo episodio, in modo esattamente opposto a come ci si poteva aspettare, cercando un contatto pacifico con gli indios che, di volta in volta, incontrava. In questo quadro si inserisce anche il suo rispetto per gli animali.
[3] A queste doti vanno aggiunte l’insofferenza per la debolezza fisica e psicologica di molti suoi compagni di fronte alle avversità della foresta, che questi percepivano come una sua inumana spietatezza, anche perché il suo entusiasmo lo portava a marciare senza sosta fino al limite delle proprie energie, spinto dall’ingordigia di posti nuovi e inesplorati (infatti i suoi migliori compagni furono quei pochi dotati della sua stessa resistenza fisica ma capaci di imporre dei limiti a questo suo inarrestabile entusiasmo); l’apprezzamento per la musica come salvezza anche nella foresta dalla pazzia della solitudine.
[4] L’Autore illustra, in particolare, le ricerche condotte da Michael Heckenberger, archeologo dell’Università della Florida, proprio nella zona in cui Fawcett scomparve per sempre, ossia il remoto Xingu. Lo stesso Heckenberger si dice affascinato dalla figura dell’esploratore inglese, sottolinea che “anche così, con la sua preparazione in qualche modo dilettantesca, andò avanti e fu in grado di vedere le cose in modo più chiaro di molti studiosi di professione” e spiega perché Fawcett non poteva trovare la mitica Z.: «Non ce n’è molta di pietra, nella selva, e gran parte degli insediamenti era costruita con materiale organico, come legno e palme, e terrapieni, tutta roba che si decompone».
[5] Scoperte simili furono fatte anche dalla spedizione condotta da Alexander Hamilton Rice, suo principale contendente, lungo il Casiquiare, canale naturale che collega i sistemi fluviali dell’Orinoco e del Rio delle Amazzoni, nel 1920.
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martedì 19 agosto 2014

RECENSIONE a James Matthew Barrie, Coraggio ragazzi!, Bollati Boringhieri Ed.



Appena pochi giorni prima della triste scomparsa di Robin Williams avevo ripreso in mano questo libretto contenente alcuni testi di James Matthew Barrie, il creatore di Peter Pan, e il primo di questi scritti mi aveva riportato alla mente il professor Keating de L’attimo fuggente, l’interpretazione più amata dell’attore americano.
Si tratta del discorso che Barrie pronunciò in qualità di rettore dell’Università scozzese di St. Andrews di fronte ai suoi studenti il 3 maggio 1922.
Questi due personaggi, quello reale e quello immaginario, affrontano entrambi lo stesso tema, quello della crescita e della maturazione verso l’età adulta. In apparenza, ciò che resta attaccato alla pelle del lettore e dello spettatore è quella vibrazione primaverile e carica di energia purissima che la giovinezza sempre manifesta intorno a sé e il cui potere di attrazione è grande per quel mondo degli adulti di cui Barrie e il prof. Keating facevano parte. Ma, a pensarci meglio, ciò che rende così potente il richiamo esercitato dalle parole di questi due personaggi è il cortocircuito che si viene a creare tra due mondi all’apparenza non comunicanti: come dichiara Barrie, “[voi giovani] avete più in comune con i coetanei di qualsiasi altro paese, di quanto le terre separate di Giovinezza e Vecchiaia potranno mai condividere”. Eppure loro riescono ugualmente a creare un ponte tra questi due mondi. E sono in grado di farlo proprio perché quel ponte esiste dentro di loro, nel “qui ed ora” della loro anima: esso non è stato percorso una sola volta nella direzione consueta lasciando che si allontanasse alle proprie spalle; al contrario, Barrie e il prof. Keating continuano a percorrerlo avanti e indietro senza sosta e così la lucida consapevolezza di ciò che sono si sovrappone con un legame d’amore alla visione tenace dell’infanzia e della giovinezza (addirittura Barrie al proprio alter ego, al sé bambino, diede piena dignità, attribuendogli un nome, un’identità e un ruolo: chiamava M’Connachie la “parte ribelle di me: quella che scrive. Siamo due metà di un tutto”).
 Per questo Barrie si può permettere di pronunciare queste frasi, che quasi fanno da incipit al suo discorso, senza apparire né untuoso né presuntuoso: “Noi, più vecchi, siamo più interessati a voi che non il contrario. Per voi infatti non siamo davvero importanti. Ho dimenticato da un bel po’ il discorso del rettore dei miei tempi, perfino chi era, ma ricordo benissimo di essermi arrampicato su una statua per mettergli i suoi colori intorno al collo e di essere stato poi buttato giù tra gli insulti. Noi ricordiamo le cose importanti”. E proseguiva dichiarando: “Non vi posso dare un bastone per il viaggio, ma forse ve lo posso descrivere: come si fa a usarlo, perderlo e ritrovarlo, quando è più necessario per appoggiarsi. Ognuno di voi – così vuole la legge – lo intaglierà da solo: il suo nome è Coraggio”. Non ricordo parole più belle che un vecchio possa rivolgere a un giovane e non nascondo che, per quante volte lo rilegga, continuano ad emozionarmi.  
 In questo varco trans generazionale che Barrie mantiene aperto troviamo molti elementi e desideri nascosti che meriterebbero di essere considerati uno per uno : rivalsa sulla Morte, apertura al caos liberatorio e creatore delle infinite possibilità aperte di fronte alla Gioventù e della rottura degli schemi tradizionali, intimità con il mondo della Natura… in definitiva, uno sconfinato amore per la Vita e per la Libertà, due ideali che è difficile non condividere e che è altrettanto difficile rispettare fino in fondo senza perdersi.
Il monito del prof. Keating – Carpe diem, che altro non è se non un travestimento felice del Memento mori (“ricorda che dovrai morire”) – emerge anche tra le parole pronunciate da Barrie, anzi si può dire che l’urgenza di vivere il presente apprendendo la lezione del passato sia sentita con ancora maggiore intensità, poiché qui c’è il confronto con la generazione perduta travolta dalla Grande guerra: “Per noi non ci sono più, ma siete voi che avete cominciato a ricalcare le loro orme, solo ieri; i libri che usate cominciano solo ora a perdere l’impronta delle loro mani. Voi che sentite ancora le urla tra le trincee, li state forse già relegando nel regno delle ombre?”.
 L’intento di Barrie non è semplicemente quello di instillare il coraggio nel cuore di ogni singolo giovane su cui cada il suo sguardo, ma anche quello di mettere la gioventù del suo tempo, come categoria sociale, di fronte all’enorme responsabilità che si trova di fronte e alla quale non può né deve sfuggire, poiché le fondamentali decisioni politiche “sono più vitali per loro che per noi”. In particolare, si dovrebbe evitare di ripetere gli stessi che hanno portato al massacro di un’intera generazione: “I vostri antenati non hanno niente a che vedere con la causa prima della guerra […] ma per circa cinquant’anni non abbiamo badato ai rulli del tamburo lontano (non certo per mancanza di preparazione militare) e quando la guerra è arrivata abbiamo detto ai giovani che dovevano cavarci d’impiccio: abbiamo pronunciato un sacco di fandonie invece di rivelare la versione vera e i cimiteri a cui essa conduce. Non volevamo ingannare nessuno, molti di noi erano onorati e ignoranti come gli stessi giovani; ma questo non ci assolve dall’esserci macchiati di colpe gravi come la stupidità e la gelosia, i due neri difetti della natura umana che, più ancora dell’amore per il denaro, sono alla radice di ogni male. […] Non siate troppo sicuri che abbiamo imparato la lezione e che in questo stesso momento non continuiamo a esitare per sentieri che conducono all’inferno”. Il più grave crimine della democratica leadership inglese fu dunque questo: “I giovani che andarono in guerra non seppero niente , non ebbero nessuna voce in capitolo”.
E, d’altra parte, i vecchi al potere non hanno la capacità di cambiare le cose: “Siamo una specie carina e gentile, ma è già evidente che restiamo indietro, a frugare nei cespugli, a cercare giacigli per le nostre vecchie ossa, invece di cercare di costruire un futuro migliore. Ecco cosa vuol dire «il paese si sta adagiando»”.
Due sono quindi i compiti che Barrie prospetta alla gioventù inglese: il primo è quello di mantenere un legame con i fratelli caduti nella Grande guerra, non tramite sterili celebrazioni (“Dove stanno adesso, eroe è una parola che vale poco”), ma coltivando il “desiderio di mandare un messaggio di felicità ai fratelli caduti”. E questo si ricollega al secondo e decisivo compito prospettato da Barrie: quello di assumersi in prima persona la responsabilità del proprio futuro, perché “la Lega delle Nazioni è una bella cosa, ma non vi salverà, perché siamo noi a guidarla. Temete i vostri anziani, anche se portano doni. […] Come inizio dovreste creare la Lega della gioventù di tutte le nazioni, pronti a dire a qualsiasi governo: «Combatteremo gli uni contro gli altri, ma solo quando siamo davvero sicuri che ciò sia necessario»”.
Non si sarebbe trattato di un compito facile. Non lo sarebbe stato all’interno del proprio paese,  Barrie lo sapeva bene: “non credo proprio che otterrete i vostri diritti con la gentilezza: noi siamo molto attaccati a quello che abbiamo, e così sarete voi alla nostra età”. Inoltre, sarebbe stato necessario riscoprire il sentimento della solidarietà, anche tra ex nemici, e di conseguenza rinunciare alla diffidenza: “non attribuite mai a un nemico moventi più meschini dei vostri. Niente deprime altrettanto il valore morale; rinunciate e sarete grandi”.
Sarebbe servita la migliore gioventù per tutto questo. Una gioventù che avesse coltivato il coraggio, perché “il coraggio è tutto. Ogni cosa si muove con esso. Cosa dice il nostro grande Samuel Johnson: «A meno che un uomo non abbia quella virtù, egli non ha la sicurezza di poterne preservare nessun’altra»”. Una gioventù che avesse saputo combattere le proprie battaglie con allegria e spensieratezza, e “la spensieratezza non è per sempre e al suo meglio è la felice compagna dell’innocenza, fin tanto che c’è”.
Così non è stato, e la peggiore delle eventualità nel 1939 si sarebbe tramutata nella terrificante realtà per quei giovani che, nella tarda primavera del 1922, ascoltavano le parole del sessantenne rettore della loro università: “Forse al momento della prossima eruzione i responsabili sarete voi e i vostri figli si troveranno intrappolati dalla lava. E questo, forse perché quest’anno avete lasciato scivolare via le cose”.

mercoledì 23 luglio 2014

recensione a FORREST CARTER, Piccolo Albero, Ed. Salani

Il protagonista di questo rigenerante racconto è un bambino che, alla tenera età di cinque anni, si ritrova orfano dei propri genitori e – siamo all’inizio degli anni ’30, quelli della Grande Depressione – va a vivere con i nonni. Ma i nonni non sono tipi qualunque, dato che “il nonno era mezzo Cherokee e nonna lo era tutta”.
Entriamo qui in contatto con un tòpos della cultura americana soprattutto novecentesca: la celebrazione della cultura dei nativi americani, seguita al loro sterminio, da parte di esponenti di quella stessa civiltà che ne aveva compiuto l’eliminazione fisica. Dietro il velo di questa perdurante ammirazione si nasconde quindi un gigantesco senso di colpa che mai troverà soddisfazione e qualcosa di non detto che pesa come un macigno, come una domanda che non si ha mai il coraggio di pronunciare ma che occupa la mente di tutti: se gli innumerevoli popoli dei nativi americani fossero ancora vitali come nell’Ottocento e occupassero vaste porzioni del Nordamerica, i bianchi, i Wasp o gli yankees, come preferite chiamarli, sarebbero ugualmente così ben disposti verso di loro? Perché solo nel caso di una risposta affermativa tutta questa fascinazione per gli indiani d’America da parte di noi bianchi si può definire sincera e i lori insegnamenti possono mettere radici nella nostra identità culturale e morale, anziché ridursi ad orpello mentale di una civiltà che ha sempre bisogno di rifarsi una verginità, per potersi dire: quanto siamo bravi, e superiori a tutti gli altri, noi che sappiamo ammettere le nostre colpe, che ricordiamo e celebriamo i popoli da noi sconfitti chiamando Tomahawk e Apache le nostre migliori armi da guerra, usate per altri sterminii, in una catena senza fine di violenza, stupidità e autoassoluzione.
Per questo mi accosto sempre con una certa diffidenza ad opere di autori occidentali che abbiano i nativi americani e la loro cultura come protagonisti, ho sempre la sensazione che leggere le pagine di libri come questo sia un atto vagamente sacrilego, nei confronti di un popolo il cui perdono non abbiamo ancora veramente cercato.
Detto questo, il libro di Forrest Carter è veramente bello e narra, capitolo dopo capitolo, l’educazione alla cultura Cherokee del giovane protagonista. Gli insegnamenti che, amorevolmente, gli vengono impartiti dai nonni hanno sempre la loro fonte originaria nell’osservazione partecipe della natura o, per meglio dire, di Mon-o-lah, la madre terra, la cui voce giunge a noi attraverso i suoi figli: Tal-con il falco, Pa-koh il giaguaro, Ti-bi l’ape, Tel-qui il tacchino e tutti gli altri esseri viventi, i quali dicono a chi vuol ascoltare che tutti siamo legati l’uno all’altro, che ogni singolo essere vivente, uomo compreso, esiste in relazione a tutti gli altri esseri viventi che compongono il creato. Questo insegnamento è alla base della Via del Cherokee.
Pagina dopo pagina, attraverso il racconto di Piccolo Albero, ci immergiamo sempre più in questa vita vissuta in piena armonia con la natura circostante, in questo caso i boschi di montagna; presi per mano dal piccolo protagonista, veniamo condotti lungo la Via e ci viene spiegato che ogni persona ha una mente del corpo, legata alle necessità della vita fisica, e quindi egoistica, e una mente dello spirito, che è poi “quel che [di noi] sopravvive quando tutto il resto muore”, quella parte di noi che ci consente di comprendere veramente gli altri esseri viventi, di parlare il linguaggio degli animali e financo di sentire i pensieri degli alberi, “ma è impossibile spalancarle la porta finché non la smetti di essere avido e meschino con la tua mente del corpo”, perché “com’è ovvio, comprensione e amore sono tutt’uno”.
E così capiamo anche quanto ogni Cherokee fosse parte della terra che, sotto i mocassini, sentiva “spingere e gonfiarsi, ondeggiare e cedere… e sentivo le radici che ne venavano il corpo e la vita dell’acqua-sangue, profonda dentro di lei”. E non sembra più un’esagerazione retorica l’affermazione che “mentre il Cherokee si allontanava dalle sue montagne, aveva cominciato a morire”, né pare più eccessivo sostenere che l’uomo bianco, sradicandosi dalla sua terra, ha ottenuto molte conquiste ma altrettanto ha perduto, in particolare nella capacità di sentire e comprendere. Così la parola dei Cherokee sembra destinata a perdersi, non essendoci più nessuno a pronunciarla né qualcuno ancora in grado di ascoltarla. E la Via dei Cherokee sembra finire in un cimitero. Oppure no?
P.S. Naturalmente, c’è molto altro in questo splendido racconto. Ci si può anche divertire a raccogliere tante annotazioni pratiche di vita nei boschi, ricavandone una sorta di Manuale delle Giovani Marmotte Indiane!

PRESENTAZIONE - parte seconda


Perché intitolare questo blog il solco della modernità? Un’intuizione che non ho voluto abbandonare, un’espressione che non mi si è più staccata dalla mente come una maglietta bagnata sulla pelle.
 Il solco della modernità è il segno che l’epoca in cui viviamo traccia sulle nostre vite. E’ un dato ineluttabile, è l’orizzonte della civiltà entro cui siamo destinati a vivere, oltre il quale nulla esiste, da cui non è concepibile fuga alcuna, poiché al di fuori di queste coordinate psichiche e culturali tutto è caos e follia.
E’ una gabbia, certo, ma in eterno movimento lungo questo solco che tutti noi contribuiamo a tracciare.
Esistono epoche in cui molti, tutti insieme, spinti da un intento comune, possono credere di poter deviare il percorso che questo solco pare predestinato a seguire, epoche in cui l’orizzonte si amplia inaspettatamente e tutto pare possibile, financo, volendolo, invertire il percorso e tornare sui propri passi. Sono momenti rari, tragici il più delle volte, in cui interessi difformi convergono nella stessa direzione, concentrandosi in picchi di energia psichica, pennacchi che disperdono presto i singoli filamenti di cui sono composti in innumerevoli direzioni.
Di norma, invece, gli eroi solitari, privi di un grande seguito, che pretendono, alla stregua di novelli Titani, di sfidare gli Dei sembrano essere in numero troppo esiguo per raggiungere quella soglia critica oltrepassata la quale i sogni palingenetici e le istanze di cambiamento trascolorano nella realtà e una morsa feroce devia l’Aratro della Vita.
D’altra parte, però, modificarne il percorso di un angolo insignificante è più che sufficiente a far sì che nel lungo termine si crei una distanza enorme dal percorso prestabilito. Ed è proprio questa la segreta consapevolezza che dona ad ogni singolo ribelle, per quanto isolato nel mondo delle proprie idee, inascoltato o rinchiuso in una gabbia di cemento e metallo, la forza di continuare a lottare senza lasciarsi trascinare inerte sul fondo di questo solco dalla corrente della Storia, ma offrendo resistenza con un movimento laterale lungo le pareti scoscese che franano sotto il suo stesso peso, cercando di spingersi con fatica immane fin sul bordo di questo solco, là dove l’orizzonte è più ampio e al tempo stesso si  fa più oscuro.
Ecco, questa è l’immagine che è emersa sulla superficie della mia consapevolezza pensando a un titolo da dare a questo blog e qui la condivido con voi.

martedì 8 luglio 2014

RECENSIONE di Francisco Coloane, Terra del Fuoco, Ed. Guanda.



RECENSIONE di Francisco Coloane, Terra del Fuoco, Ed. Guanda.
In questi racconti dello scrittore cileno Francisco Coloane i personaggi sembrano prendere vita dalla terra che calpestano, quella Terra del Fuoco che costituisce l’estremità meridionale della Patagonia e, quindi, del continente americano. Là, in quelle terre lontane, l’Uomo e la Natura interagivano senza che l’uno prevalesse sull’altra, in quell’estrema propaggine delle terre australi ancora non si era interrotto il dialogo tra l’uomo e l’ambiente naturale che lo ospitava; al contrario, la Natura, con il suo movimento ciclico, la solitudine dei suoi paesaggi, l’irrefrenabile energia delle sue manifestazioni, la sua capacità di essere accogliente e innocentemente violenta, impudica e ricolma di sacralità fa da contrappunto ai pensieri degli uomini , alle pulsioni profonde che li smuovono e motivano le loro azioni, alle correnti interiori che scolpiscono con forza o plasmano con delicatezza le loro anime, alla misera linearità del loro tempo, che li espone all’ossessione peculiare, quella per l’idea della Fine, alla sfiancante rincorsa di un orizzonte di pienezza e serenità che sanno non essere loro concesso in questa vita.
Infatti, la capacità di accogliere in sé la Natura, di “portare la civiltà nella natura e la natura nella civiltà”  è il vero Eden che l’uomo continua a sognare ma che rappresenta ormai un traguardo irraggiungibile, poiché non è davanti a sé, ma alle proprie spalle, appartiene ad uno condizione, lo stato di natura, al quale siamo sfuggiti ormai definitivamente. Non c’è possibilità di tornare sui propri passi, se non al prezzo di perdersi. Come fa dire ad uno dei suo alter ego letterari: “la natura prima ti ‘disintegra’, e poi ti ‘integra’ in lei come uno dei suoi elementi. Nella prima fase ci si sente annichiliti, alcuni periscono, mentre nella seconda si rinasce con un nuovo vigore; è così che, a volte, seleziona e distrugge ciò che più le conviene. […] Fu come se avessi cessato di essere me stesso. […] tutto era lì, nella natura, di fronte alla quale fino ad allora mi erano mancati occhi, sensi, mente, per vedere, ascoltare e riflettere”.
La natura è protagonista, come in London, al quale Coloane è stato paragonato; ma in questi suoi racconti il tono non è mai epico, piuttosto lo si può definire crepuscolare, come il sole basso di queste terre estreme. Nella Patagonia di Coloane la sottile crosta della civiltà era spaccata e attraversata da solchi profondi, come terra bruciata dal sole, lì ogni essere umano (o, meglio, ogni  uomo bianco), di fronte ad una natura selvaggia e, spesso, ad una sconfinata solitudine, si mostrava brutale, laconico, fragile e tagliente quanto il paesaggio che lo circondava e, soprattutto, poteva capitare di scoprire che, “per quanto l’uomo fosse arrivato a dominare la natura, non riusciva ancora a dominare la propria…”. A dimostrarlo è più che sufficiente la violenza sconfinata e irredimibile nei confronti di chi ha voce né diritti, ossia le sparute comunità di indios che lì ancora sopravvivevano e la natura stessa, violentata non solo metaforicamente.