“Eroe del racconto, eroe che io amo con tutta l’anima e che ho cercato
di riprodurre in tutta la sua bellezza, e che sempre è stato, è e sarà
meraviglioso, eroe del mio racconto è la verità”.
La guerra di Crimea è uno di quei
conflitti minori dell’Ottocento di cui la maggior parte di noi non ricorda con
precisione le origini storiche, le forze in campo o le conseguenze; ci resta
soltanto un vago ricordo legato alla nostra storia risorgimentale
Abbiamo tutti sentito parlare
della guerra di Crimea, quantomeno ne abbiamo un vago ricordo, se non altro
perché quel conflitto ha rappresentato uno snodo cruciale del nostro
Risorgimento e, di conseguenza, un punto fisso dei programmi scolastici di
insegnamento della storia da una generazione all’altra, fino ai giorni nostri. Ricordiamo
magari che fu una tappa del nostro processo di unificazione nazionale, la
associamo alla figura di Cavour e al fatto che i morti italiani in quelle terre
lontane furono la moneta con cui la ragion di stato sabauda pagò il sostegno di
alcune grandi potenze (Francia e Inghilterra) nella nostra lotta contro
l’Impero austro-ungarico.
Ma a noi italiani è mancato un
narratore capace di superare l’immediatezza di quegli eventi e di registrarne il contenuto universale ed
eterno. Tra le fila dello schieramento avversario era invece presente un
giovane ufficiale, tale Lev Nikolaevič Tolstoj, che, per nostra fortuna, non
andò incontro al destino di tanti altri suoi coetanei sui bastioni di
Sebastopoli.
Il suo sguardo partecipe registrò,
da un lato, l’ammirazione per il popolo russo - la cui forza nasce da due
caratteristiche essenziali: “la semplicità e l’ostinazione” - e, dall’altro,
l’insofferenza per il mondo dell’aristocrazia russa, composta da individui il
cui unico movente pare essere la vanità (“Vanità, vanità, nient’altro che
vanità, perfino sull’orlo della fossa e tra persone pronte ad affrontare la
morte per un nobile ideale”), il desiderio di innalzarsi su una scala
sociale che pare avere sempre un gradino di troppo, modulando
disprezzo e adulazione, affettazione e genuflessione a seconda della persona
che si ha di fronte o accanto a sè. Uomini che paiono usciti dall’universo
barocco della corte del Re Sole, incapaci di vedere ciò che realmente accade
intorno a loro, incatenati ad un mondo di apparenze, tanto più vogliosi di
esibire il loro potere e la loro ricchezza quanto più immeritatamente quelli sono
stati conseguiti; coscienze asfittiche
impegnate a praticare un ottuso machiavellismo per avvicinarsi di un passo alla
vetta della società, e totalmente indifferenti al mondo che sta ai loro piedi: “«[…]
ci mancherebbe, in una tale situazione, vivere anche nel fango e senza comodità».
«E come fanno allora i nostri ufficiali di fanteria», disse Kalugin, «che
vivono con i soldati nei bastioni, nel rifugio, e mangiano il rancio dei
soldati, come se la passano loro?» «Ecco, questo proprio non lo capisco e, devo
ammetterlo, non riesco a credere», disse Gal’cin, «che degli uomini con indosso
biancheria sporca, che vivono in mezzo ai pidocchi e senza lavarsi le mani,
possano essere valorosi. […]». Ufficiali che pure partecipano
agli scontri, magari mostrando anche coraggio, ma che sempre
affrontano la battaglia come fosse un giro di roulette, l’avventura di un
momento, ritraendosene inorriditi e disgustati appena il vero volto della
guerra comincia a mostrarsi loro: “Ma Kalugin non capì che
egli, in tutto, aveva trascorso appena cinquanta ore sui bastioni, mentre il
capitano aveva vissuto là sei mesi. Inoltre stimolava Kalugin la vanità, il
desiderio di brillare, la speranza di decorazioni, di procurarsi buona fama e
il piacere del rischio; il capitano aveva già passato tutto questo”. “Al
contrario, Kalugin e il colonnello sarebbero stati disposti ad assistere ogni
giorno a un fatto del genere, solo per ricevere ogni volta la sciabola d’oro e
il grado di general maggiore”.
Tolstoj mette così in luce la
frattura che attraversa la società russa del suo tempo, ciò che la condurrà
alla sconfitta e al crollo definitivo: “La disciplina e le sue regole, la
subordinazione, è gradita, come tutti i rapporti fissati dalle leggi, solamente
quando è fondata, oltre che sulla coscienza comune della sua necessità, sulla
virtù, riconosciuta da parte dell’inferiore, di una superiorità basata sull’esperienza,
sul valor militare o addirittura semplicemente sull’integrità morale; ma quando
la disciplina è basata, come spesso accade qui da noi, sulla casualità e sul denaro,
essa si tramuta sempre in arroganza da una parte, in invidia nascosta e in
rabbia dall’altra e, invece dell’influsso benefico prodotto dall’unione delle
masse in un tutt’uno, ottiene l’effetto contrario. L’uomo che non senta dentro
di sé la forza di ispirare rispetto con la virtù interiore, istintivamente teme
di assomigliare ai subordinati e cerca, dandosi importanza con atteggiamenti
esteriori, di allontanare da sé le critiche. I subordinati, vedendo solo questo
lato esteriore, che li offende, ritengono, in gran parte a torto, che al di là
di esso non ci sia più niente di buono”. Parole, queste, che parlano di un tempo lontano e di tutt'altra società, ma che mostrano qualcosa che i nostri occhi sanno di avere visto nella nostra Italia del XXI secolo. L'unica differenza - e, forse, l'unica cosa che può salvarci - è la democrazia, che là non aveva voce, mentre qui ancora sopravvive...